Quanto possono valere i minuti di recupero? L’importanza del dettaglio nella redazione delle clausole contrattuali degli accordi sportivi

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In mancanza di ulteriore specificazione delle parti, ai fini del computo del minutaggio di una presenza vanno considerati anche i minuti di recupero.

UN CASO PRATICO. Il Tribunale Federale Nazionale – Sezione Vertenze Economiche e, in seconda battuta, la Corte Federale di Appello si sono di recente pronunciate (la prima, con Decisione n. 12/2021-2022, la seconda con Decisione n. 13/2021-2022) su una questione che, se ad un primo sommario esame può apparire banale, in realtà sottende problematiche giuridiche e interessi economici di portata significativa.

IL FATTO. Due Società calcistiche di serie A provvedevano, in sede di cessione della prestazione sportiva di un calciatore, ad inserire nel relativo contratto la previsione di un premio, di importo pari ad Euro 200.000,00, da corrispondersi in favore del club cedente nel caso in cui il calciatore ceduto avesse maturato, nelle fila della società acquirente (ovvero di altra squadra di serie A), nel corso di gare ufficiali, 25 presenze di almeno 15 minuti ciascuna.

Le parti stabilivano che le fonti sulla scorta delle quali avrebbe dovuto essere verificato l’avveramento della condizione sarebbero state due, una di matrice giornalistica (il quotidiano la Gazzetta dello Sport) ed una di carattere “istituzionale” (il sito internet della Lega di Serie A).

Tali fonti erano ritenute dai contraenti alternative ma, comunque, equipollenti.

Il contenzioso è sorto in ragione del fatto che, nel rendicontare il minutaggio complessivo dell’atleta, le due citate fonti divergevano, con la conseguenza che seguendo una il premio doveva ritenersi maturato, mentre seguendo l’altro no. In particolare, il sito della Lega di Serie A conteggiava anche i minuti di recupero assegnati dall’arbitro al termine del tempo regolamentare, mentre la Gazzetta dello Sport calcolava il tempo della presenza solamente entro i 90 minuti di gara.

Secondo il club tenuto alla corresponsione dell’eventuale premio (ricorrente in primo grado e, successivamente, reclamante in appello) il calcolo del minutaggio avrebbe dovuto avvenire tenendo in considerazione soltanto i 90 minuti regolamentari e non anche il successivo tempo di recupero assegnato dall’arbitro allo scadere dei due tempi di gioco dal momento che l’art. 7 del Regolamento del gioco del calcio dispone che “una gara si compone di due periodi di gioco di 45 minuti ciascuno” e che l’estensione del tempo di gioco, ossia il recupero, costituirebbe una mera misura di compensazione del tempo non giocato, con la conseguenza che “la previsione di un tempo extra, dopo il novantesimo minuto, è ammessa solo quale strumento per rimediare alle perdite di tempo, i.e. ai momenti in cui il gioco è fermo”.

Perché la condizione legittimante il premio potesse dirsi avverata, dunque, avrebbero dovuto essere presi in considerazione solo i due periodi di gioco di 45 minuti ciascuno: “il concetto di presenza in campo rilevante in base ai minuti della gara per il riconoscimento di una indennità premiale”, infatti, doveva essere ricondotto ad un “evento positivo legato, appunto, al rendimento del calciatore secondo l’unico dato prevedibile ex ante tra le parti, i.e. i 90 minuti di gioco”.

Sempre ad avviso della ricorrente, “nell’individuare i minuti di gioco ritenuti rilevanti per conoscere la presenza in campo del calciatore” le parti avrebbero fatto riferimento, “in assenza di una previsione diversa”, al concetto di partita giocata sui 90 minuti, “stabilendo che almeno 1/3 di un tempo di gioco e, quindi, poco più del 15% della durata totale di una gara – sempre secondo il parametro dei 90 minuti – avrebbe configurato una presenza rilevante ai fini del premio”, senza, perciò, considerare “la variabile imprevedibile dei minuti di recupero”.

Ancora, sempre secondo la ricorrente: “il parametro dei minuti totali, compresi quelli di recupero, portano evidentemente ad un esito contrario alle esigenze di certezza del sistema”, mentre il riconoscimento del premio avrebbe dovuto ancorarsi alla “applicazione di criteri e parametri certi e, quindi, non soggetti a variabili”.

LA DECISIONE DEL TFN. Il Tribunale Federale, con decisione n. 12/2021-2022, ha respinto il ricorso chiarendo che il concetto di “presenza” – ai fini del raggiungimento della soglia di 15 minuti che il calciatore avrebbe dovuto trascorrere in campo – non può essere disancorato dal computo anche del tempo di recupero e ciò per due ordini di motivi.

A supporto di tale conclusione, occorre innanzitutto porre il testo della pattuizione contrattuale (“25a presenza da almeno 15 minuti del calciatore”) prevista dai contraenti, la quale è di portata generale (ma non generica) e non richiama una particolare performance sportiva, bensì contempla la mera presenza del calciatore sul rettangolo di gioco.

In altre parole, ove i contraenti avessero effettivamente voluto attribuire rilievo, ai fini dell’avverarsi della condizione premiale, al solo tempo regolamentare, ovvero ai minuti effettivamente giocati, essi lo avrebbero espressamente stabilito nel contratto.

In assenza di previsioni contrattuali più dettagliate, pertanto, secondo il TFN “il tempo recuperato, pur mirando a compensare il tempo non giocato, resta comunque rilevante ai fini della regolarità della partita e del risultato e, a fortiori, della presenza oltre che delle prestazioni dei calciatori”.

In secondo luogo, ad avviso del Tribunale, deve sottolinearsi che nel gioco del calcio (a differenza di altri sport quali, a titolo esemplificativo, il basket) non solo non è prevista la regola del tempo effettivo ma, oltretutto, non è neppure rinvenibile “un principio di corrispondenza cronometrica tra tempo non giocato e tempo recuperato”, in quanto “la durata del tempo da recuperare è a discrezione dell’arbitro”, che lo concede tenendo conto, in modo sommario, delle interruzioni verificatesi nel corso dei due tempi regolamentari.

Su tali presupposti, la censura sollevata dalla ricorrente circa la necessità di parametrare i 15 minuti della presenza in campo del calciatore avuto riguardo ai soli 90 minuti del tempo regolamentare non appare quindi in linea con l’impianto regolamentare dettato per la disciplina sportiva in questione.

Al contrario, sempre nell’ottica del Giudice di prima istanza, il mancato riferimento al tempo effettivamente giocato (criterio che la ricorrente ha invocato per la prima volta solo nel contesto del ricorso) aveva, in realtà, costituito una scelta consapevole delle parti, le quali avevano inteso definire il concetto di “presenza” in campo senza fare differenze fra tempo regolamentare, tempo di recupero e tempo effettivo.

IL RECLAMO ALLA CORTE FEDERALE DI APPELLO. Avverso la decisione del TFN il club cessionario, già ricorrente in primo grado, ha proposto reclamo lamentando: a) l’assenza, nella decisione reclamata, di motivazione alcuna in ordine alla prevalenza della fonte “Lega di Serie A” rispetto alla fonte “Gazzetta dello Sport”; b) l’erroneità della decisione, nella misura in cui non correla il concetto di “presenza” alla partecipazione “significativa, proattiva e performante” del calciatore al gioco per almeno 15 minuti su 90 totali e, quindi, ad una “performance sportiva qualificata sotto il profilo temporale” (come tale individuabile nei soli 90 minuti di tempo regolamentare).

La Corte Federale di Appello (CFA) ha tuttavia respinto il ricorso e confermato la decisione impugnata chiarendo, in primo luogo, che l’antinomia fra le fonti prese in considerazione dai club per la verifica dell’avveramento della condizione premiale era stata superata dal TFN attraverso la dirimente applicazione dei principi generali in tema di ermeneutica contrattuale e, precisamente, attraverso la ricostruzione della “comune intenzione delle parti” (di cui all’art. 1362 c.c.) “secondo un criterio di ragionevolezza e di coerenza con gli obiettivi perseguiti attraverso la clausola negoziale regolante i presupposti costitutivi del diritto al premio”.

Il mero e non meglio specificato concetto di “presenza” del calciatore, infatti, non può intendersi legato ad una performance sportiva, “con conseguente neutralizzazione di qualsivoglia riferimento alla incidenza del tempo effettivamente giocato”, tenuto oltretutto conto che lo stesso art. 7 del Regolamento del gioco del calcio (richiamato proprio dalla difesa della ricorrente a sostegno delle proprie teorie) non presenta alcun riferimento al tempo effettivo di gioco, né differenzia fra loro il tempo regolamentare e il tempo di recupero.

Alla luce di ciò, deve quindi escludersi che le parti, all’atto della sottoscrizione del contratto, volessero attribuire al concetto di “presenza” un significato diverso rispetto a quello desumibile dal citata norma, la quale – “in quanto regolante il settore sportivo nel quale operano” – ha una portata centrale e determinante per entrambi i club contraenti.

La CFA condivide quindi l’assunto per cui “anche il tempo di recupero costituisce fattore essenziale della regolare e complessiva durata della singola partita e, quindi, della complessiva presenza (o prestazione) del calciatore” dal momento che – essendo l’arbitro obbligato (“deve”, recita la menzionata norma) a prolungare, discrezionalmente, ciascun periodo di gioco per recuperare l’eventuale tempo perduto – il prolungamento temporale dell’incontro sportivo ha la medesima natura ed il medesimo “valore” del tempo regolamentare.

Del resto, aggiunge la Corte, “l’indicazione dell’effettiva e complessiva durata della partita, inclusiva anche del tempo di recupero, deve essere effettuata puntualmente dall’arbitro in sede di refertazione” circostanza che conduce necessariamente a ritenere che “il tempo di recupero non possa essere considerato quale entità temporalmente autonoma rispetto all’ordinaria durata della partita e, quindi, elemento eterogeneo rispetto alla durata regolare della partita”.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE. La vicenda in commento offre lo spunto per soffermarsi sull’importanza che riveste la redazione del contenuto di un contratto sportivo – specie per quanto attiene alla dettagliata individuazione dei presupposti di maturazione dell’eventuale parte variabile (c.d. “bonus”) – alla luce delle peculiarità connesse con ciascuna pratica sportiva.

A fondamento delle decisioni sopra richiamate, infatti, entrambi i Giudici federali hanno posto il tenore letterale (di carattere generale) delle espressioni utilizzate dai contraenti rapportandolo alle previsioni normative dettate dal legislatore per disciplinare la pratica sportiva di riferimento.

Nello specifico, non avendo le parti specificato convenzionalmente cosa dovesse precisamente intendersi per “presenza” in campo del calciatore ai fini degli interessi dedotti nel contratto, i Giudici – chiamati a ricavarne la corretta interpretazione per dirimere la controversia – non hanno potuto che indagare la comune volontà delle parti muovendo dal concetto di presenza e, soprattutto, di tempo di gioco emergenti dall’impianto sistematico delle norme regolamentari sportive, le quali rappresentano un dato normativo certamente noto (e condiviso) ad entrambi i contraenti.

Tanto il TFN, quanto la CFA hanno infatti tratto dalla mancata specificazione del concetto di “presenza” la conclusione che le due società, con tale espressione, avessero inteso riferirsi alla mero concetto di permanenza del calciatore sul terreno di gioco per tutta l’effettiva durata temporale della gara senza dare rilevanza ad un “qualificante” rapporto tra tale permanenza e la durata “standard” del match (ossia senza voler rapportare la misura del tempo giocato ai soli 90 minuti regolamentari).

Del resto, è la stessa normativa sportiva a dare piena ed assoluta rilevanza giuridica anche al tempo c.d. “di recupero”.

Peraltro, secondo i Giudici federali, quest’ultima circostanza è idonea a rilevare anche con riferimento all’ulteriore criterio di interpretazione contrattuale di cui all’art. 1366 c.c., a norma del quale è previsto che il contratto debba interpretarsi in modo tale da salvaguardare i legittimi interessi in esso dedotti da tutte le parti contraenti (c.d. criterio della buona fede) ed alla luce del quale appare ragionevole ritenere – nella fattispecie qui considerata – che il club cedente avesse inteso dar valore ai 15 minuti di presenza in quanto tali e non in quanto porzione di un limitato periodo di soli 90 minuti.

Presumendo che il premio in questione fosse finalizzato a remunerare il club cedente per un minimum di apporto dell’atleta in favore della società cessionaria pari ad almeno 15 minuti per un certo numero di partite, se si aderisse al ragionamento di quest’ultima, si finirebbe per vanificarne la portata.

Per escludere la corresponsione del premio pur beneficiando di detto apporto, infatti, sarebbe stato sufficiente per la società acquirente far subentrare in campo il calciatore al minuto 76 di ogni match.

In conclusione, il caso concreto dimostra come – al fine di evitare che la (necessaria) “integrazione interpretativa” demandata, in ipotesi di contenzioso, al giudice possa condurre a conclusioni giuridiche e conseguenze economiche diverse da quelle effettivamente volute in sede di stipula contrattuale – i contraenti sono chiamati a redigere clausole contrattuali ed utilizzare espressioni il più possibile dettagliate e precise e ciò anche perché, come dimostra il caso presentato, i valori economici in gioco sono, molto spesso, di entità tutt’altro che trascurabile.

Circa l'Autore

Avv. Stefano Fusco
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