La nuova disciplina degli Agenti comunitari ed il “paradosso” della domiciliazione

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Tra le disposizioni di maggior rilevanza contenute nel recente DPCM del 24 febbraio scorso in materia di procuratori sportivi, vi sono certamente quelle riguardanti la categoria degli “agenti stabiliti”, tanto che nelle stesse premesse del provvedimento si precisa testualmente che l’emanazione del medesimo si giustifica in ragione dell’“esigenza di meglio specificare le previsioni afferenti la professione sportiva regolamentata di agente sportivo nell’ambito del sistema di riconoscimento delle qualifiche professionali completate in altri Stati membri dell’UE al fine di armonizzare e facilitare la procedura, consentendo il riconoscimento automatico di titoli, formazione e prove che siano equivalenti”.

Per comprendere pienamente la portata innovativa di tale disposizione è indispensabile richiamare la previgente disciplina della fattispecie, nonché evidenziare le relative criticità che hanno condotto il Collegio di Garanzia dello Sport del CONI a pronunciarsi in merito con la decisione n.7/2020.

Occorre premettere che l’art. 11 del precedente DPCM del 23 marzo 2018 – originariamente chiamato a dare esecuzione alla riforma della professione di procuratore sportivo introdotta con il comma 373 dell’art. 1 della Legge 205/2017 – stabiliva il diritto dei  cittadini dell’Unione Europea abilitatisi in altro Stato membro di chiedere alla Federazione o alle Federazioni sportive professionistiche italiane, nell’ambito della cui disciplina intendessero operare, di essere iscritti in un apposita sezione del registro federale degli agenti sportivi.

Al riguardo veniva poi chiarito che “Ciascuna federazione, accertato che il richiedente sia abilitato a operare nell’ambito della federazione sportiva del paese di provenienza, lo iscrive alla sezione speciale del registro federale dandone comunicazione al Coni entro trenta giorni per l’iscrizione in apposita sezione del Registro nazionale”.

Tanto premesso, si rende doveroso considerare che, a fronte della “deregulation” operata dalla FIFA nel 2015, i requisiti necessari all’abilitazione degli agenti sportivi in seno alle singole Federazioni nazionali sono attualmente demandati all’autonoma regolamentazione delle stesse (con conseguente ed inevitabile disomogeneità di disciplina). Infatti, a fianco alle Federazioni calcistiche straniere che – come la nostra – impongono, per l’iscrizione, il superamento di un vero e proprio esame (ad esempio quella francese), ve ne sono altre (quella spagnola) che prevedono procedure valutative decisamente più attenuate (quali l’espletamento di un mero colloquio con il Segretario Generale della Federazione), oppure che non contemplano alcun accertamento di competenze tecnico-professionali (come la Federazione inglese).

In ragione di ciò, le problematiche sono sorte relativamente alla diversa interpretazione da attribuire alle previsioni di cui al citato DPCM del 2018 data dal CONI e dalla FIGC.

Il primo, infatti, riteneva che l’abilitazione straniera idonea ad autorizzare l’iscrizione dell’interessato negli elenchi italiani dovesse necessariamente stabilire requisiti valutativi analoghi a quelli interni, mentre la seconda ammetteva anche l’abilitazione secondo forme “meno stringenti”.

Ne è conseguito che i soggetti di nazionalità comunitaria (compresi gli italiani) iscritti nel registro spagnolo, ma non anche in quello inglese (pur in tempi “pre-brexit”) venissero validamente registrati nell’elenco FIGC salvo vedersi poi opporre il diniego all’inserimento nel Registro nazionale del CONI (con conseguente impossibilità di esercitare in Italia).

Chiamato a dirimere la questione, in sede di ricorso giurisdizionale, il massimo organo della giustizia sportiva interna ha ritenuto, con la richiamata pronuncia, che la corretta interpretazione della menzionata normativa deponesse nel senso che, essendo il vaglio sull’abilitazione straniera espressamente demandato alla Federazione, una volta che quest’ultima “abbia eseguito l’iscrizione del richiedente nel Registro Federale (svolgendo – si suppone – il proprio doveroso accertamento in ordine alla sussistenza dei requisiti richiesti), la successiva iscrizione presso il Registro Nazionale si configura come automatica, senza attribuire al CONI alcun sindacato sulla sussistenza dei requisiti per il conseguimento del titolo abilitativo e sulle modalità con le quali quei requisiti sono stati conseguiti”.

Se, tuttavia, la citata decisione è risultata utile per stabilire la distribuzione delle competenze tra le due istituzioni sportive coinvolte, altrettanto non può dirsi, stante il silenzio del Collegio sul punto, relativamente al criterio da adottarsi per il valido riconoscimento delle abilitazioni straniere, i cui requisiti di ingresso “più attenuati” sono spesso sfruttati anche da soggetti italiani per operare in Italia sottraendosi al preventivo esame interno.

La novella del DPCM in commento si prefigge di fare chiarezza sul punto laddove, all’art. 11, sancisce che “Ciascuna federazione sportiva nazionale professionistica, accertato che il richiedente (n.d.r. ancorché italiano) sia abilitato a operare in altro Stato membro dell’Unione europea e nell’ambito della corrispondente federazione sportiva nazionale di tale Paese, avendo superato prove equipollenti a quelle previste dal presente decreto, lo iscrive alla sezione speciale del Registro federale dandone comunicazione al CONI che, svolte le verifiche di propria e competenza, procede entro trenta giorni all’iscrizione in apposita sezione del Registro nazionale”.

Viene quindi introdotto, salvo quanto si dirà oltre, il principio secondo cui il riconoscimento interno di un’abilitazione ottenuta in un diverso Stato membro dell’UE è condizionata al fatto che il suo conseguimento presupponga un accertamento di competenze tecnico-professionali analogo a quello imposto dall’ordinamento sportivo italiano (ossia tramite il superamento di un preventivo esame).

La perentorietà di una tale esigenza sembrerebbe poi rafforzata nella parte in cui il legislatore statale ha demandato al CONI – sulla scorta delle generali previsioni comunitarie in tema di riconoscimento dei titoli stranieri ed ai fini della relativa iscrizione nei Registri sportivi italiani – la possibilità di introdurre e disciplinare, per coloro la cui Federazione non sottopone l’abilitazione a requisiti equipollenti ai nostri,  apposite “misure compensative” di carattere integrativo (ossia “prove abilitative” specifiche o “tirocini di adattamento”).

Va però sottolineato che, se – per un verso – a fronte del “nuovo” DPCM l’iscrizione nell’apposita sezione “agenti stabiliti” dei Registri federali e nazionale può essere oggi ottenuta solo da soggetti che abbiano conseguito l’abilitazione professionale a seguito di una prova valutativa, per alto verso, la norma in commento riconosce a qualsiasi agente di nazionalità comunitaria – iscritto in una Federazione di uno Stato membro (a prescindere dai relativi criteri di abilitazione) – il diritto di operare in Italia domiciliandosi presso un agente abilitato italiano.

Ciò sembra potersi dedurre dal dettato dell’ultimo comma dell’art.12, il quale afferma che “L’istituto della domiciliazione (n.d.r. lo stesso già previsto per gli extra-comunitari) si applica anche ai cittadini italiani o di altro Stato membro dell’Unione Europea che siano abilitati a operare in altro Stato membro dell’Unione europea ma non abbiano superato prove equipollenti a quelle previste dal presente decreto”.

In altri termini, il DPCM – raffigurandosi, evidentemente, la situazione di quei soggetti che, pur essendo comunitari, non avrebbero titolo per iscriversi nei Registri sportivi italiani (stante le diverse procedure abilitative previste dalla propria Federazione) – consente a costoro di operare in Italia “previa domiciliazione presso un agente regolarmente iscritto nel Registro nazionale e nel registro federale della relativa federazione”. Al riguardo, viene chiarito che tali soggetti “Nell’esercizio della loro attività, devono agire di intesa con l’agente presso cui sono domiciliati, utilizzando il titolo riconosciutogli nel Paese di provenienza e nell’ambito della corrispondente federazione sportiva nazionale di tale Paese”.

Trovando tale disciplina testuale applicazione anche per i cittadini italiani iscritti in Federazioni di altri Paesi comunitari, il risultato rischia di apparire paradossale.

Se, infatti, l’iscrizione di costoro in una Federazione straniera che “abilita senza esame” non gli consentirà più di ottenere la corrispondente registrazione interna nella sezione “agenti stabiliti”, il nuovo DPCM li autorizzerà comunque ad esercitare in Italia per il tramite di una mera domiciliazione presso un “agente italiano”, peraltro a condizioni economiche più vantaggiose, ossia senza nemmeno il versamento delle quote di iscrizione negli elenchi interni.

In conclusione va però evidenziato che, perlomeno in ambito calcistico, lo scenario internazionale sarà presto destinato ad uniformarsi in ragione dell’attesa re-introduzione, da parte della FIFA, di un proprio esame abilitativo cogente per tutte le Federazioni, il quale finalmente rappresenterà, per usare un’espressione di manzoniana memoria, la “falce che pareggia tutte l’erbe del prato”.

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