Le problematiche deontologiche dell’ avvocato procuratore sportivo

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Si è già avuto modo di approfondire in passato la dibattuta questione circa la possibilità o meno dell’avvocato iscritto all’albo forense di rendere la prestazione tipica del procuratore in favore di soggetti sportivi (società ed atleti) al di fuori della cornice normativa predisposta dalla FIGC e, pertanto, senza sottostare ai vincoli previsti da quest’ultima in tema di registrazione presso l’elenco federale, redazione del mandato secondo il contenuto dettato dall’apposito Regolamento e deposito del contratto.

In tale sede si diede conto dell’opposta diversità di veduta intercorrente tra il Consiglio Nazionale Forense e la Corte di Cassazione.

Rimandando il relativo approfondimento all’articolo di riferimento (per leggerlo clicca qui), è sufficiente qui ricordare che, mentre per il CNF l’avvocato manterrebbe la possibilità di assistere i soggetti sportivi nella caratteristica attività del procuratore in completa autonomia rispetto alle previsioni della normativa FIGC (parere n. 75/2015), la Suprema Corte (sentenza n. 18807/2015) ha, invece, più volte sanzionato con la nullità tali tipologie di incarico professionale laddove non siano risultate conformi alle disposizioni all’uopo previste dall’ordinamento sportivo (in quanto ordinamento di carattere speciale).

Ciò premesso, è opportuno dar conto del fatto che le criticità deontologiche a cui è esposto l’avvocato che intende svolgere l’attività di procuratore non si esauriscono a tale aspetto.

Ulteriori problematiche emergono, infatti, con riferimento a due istituti contemplati dal Regolamento FIGC sui procuratori sportivi del 2015 riguardanti rispettivamente il c.d. “conflitto di interessi” e la possibilità per il professionista di definire il proprio compenso anche in misura percentuale sul reddito lordo annuale conseguito dal calciatore oppure sull’ammontare del corrispettivo pagato da una società per il trasferimento dell’atleta.

 

CONFLITTO DI INTERESSI – Per ciò che attiene al primo istituto, giova ricordare che una delle principali modifiche introdotte con il citato Regolamento del 2015 (art. 7.1) è consistita proprio nell’abolizione del divieto di “conflitto di interessi” del procuratore sportivo, in forza della quale si è riconosciuto a quest’ultimo la facoltà di poter contemporaneamente assistere nella medesima operazione negoziale tanto il calciatore, quanto la società (potendo così legittimamente maturare il proprio compenso nei confronti di entrambi i soggetti). Per agire in tal senso, al procuratore è richiesto solamente di raccogliere il consenso scritto di entrambi le parti coinvolte.

Su tali basi, è quindi doveroso chiedersi se anche l’avvocato iscritto ad un albo territoriale che opera in veste di procuratore sportivo possa o meno beneficiare di una tale previsione.

Anche sul punto è riscontrabile un contrasto di orientamenti.

Chi nega che l’avvocato possa assistere contestualmente sia una società, sia un calciatore lo fa in ragione delle disposizioni di cui all’art. 24 del Codice deontologico forense, il quale, tra le altre cose, espressamente stabilisce che:

l’avvocato deve astenersi dal prestare attività professionale quando questa possa determinare un conflitto con gli interessi della parte assistita e del cliente o interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale” (comma 1); e

il conflitto di interessi sussiste anche nel caso in cui il nuovo mandato determini la violazione del segreto sulle informazioni fornite da altra parte assistita o cliente, la conoscenza degli affari di una parte possa favorire ingiustamente un’altra parte assistita o cliente, l’adempimento di un precedente mandato limiti l’indipendenza dell’avvocato nello svolgimento del nuovo incarico” (comma 3).

Secondo tale tesi, il conflitto di interessi contemplato dalla citata norma dovrebbe dunque considerarsi tale già in termini astratti e/o potenziali, determinandosi per il solo fatto che i soggetti assistiti dal legale risultino tra loro controparti anche solo in senso formale.

Coloro che invece criticano questa impostazione (così riconoscendo all’avvocato le stesse prerogative di un “comune” procuratore), fanno proprio leva, in senso contrario, sulla necessità che – per essere sanzionabile –  il conflitto di interessi debba essere reale e concreto.

In quest’ottica, si rientrerebbe in un’ipotesi di conflitto di interessi unicamente nel caso in cui la prestazione del professionista rendibile in favore di una parte non possa che risultare inevitabilmente contraria agli interessi dell’altra.

A supporto di tale seconda teoria si è peraltro soliti tracciare un parallelismo con la facoltà concessa all’avvocato di assistere contestualmente entrambi i coniugi nell’ambito di una separazione consensuale.

A supporto di tali argomentazioni è, inoltre, possibile dar conto di una recente pronuncia del Tribunale di Pordenone del 20 aprile 2016 nella quale è stato stabilito che: “per la sussistenza di un conflitto è necessaria la presenza di interessi contrapposti e inconciliabili, così che la soddisfazione dell’interesse del rappresentante comporti necessariamente il sacrificio dell’interesse del rappresentato o viceversa, e che un danno effettivo e potenziale da tale contrapposizione discende per il rappresentato, posto che nessun conflitto può essere ipotizzato nel caso in cui il compimento del negozio rappresentativo sia tale da soddisfare contemporaneamente l’interesse del rappresentato e del rappresentante ovvero di soggetti terzi”.

 

REMUNERAZIONE IN PERCENTUALE – Venendo alla seconda questione (compenso in misura percentuale), il problema si pone con riguardo al divieto del “patto di quota lite” sancito dall’art. 25, comma 2 del Codice deontologico forense, ai sensi del quale “sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come compenso, in tutto o in parte, una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa”.

Per comprendere i termini del problema, occorre soffermarsi brevemente sulla particolare struttura di compenso in percentuale concepita dal Regolamento FIGC (art. 6.2), secondo cui la stessa può essere calcolata sulla remunerazione lorda dell’atleta come emergente dal contratto di lavoro negoziato in suo favore dal procuratore oppure sul corrispettivo per la cessione del calciatore ad un diverso club sempre per il tramite di un accordo stipulato con l’assistenza del procuratore.

In entrambi i citati casi – parametrandosi il compenso del procuratore sui risultati economici conseguiti dal cliente per la propria attività – tale fattispecie sembrerebbe doversi ritenere astrattamente preclusa all’avvocato per contrarietà al disposto del menzionato art. 25 della norma deontologica.

La criticità, tuttavia, è di natura più che altro formale, rimanendo confinata alla mera redazione del contratto di incarico, dal momento che, sul piano sostanziale, i medesimi risultati economici garantiti al mandatario dall’utilizzo dello strumento della percentuale sono comunque conseguibili in modo diverso e del tutto legittimo.

L’aleatorietà del compenso dell’avvocato procuratore legato al risultato negoziale della prestazione da costui resa a beneficio del cliente (quale fenomeno che il Legislatore intende contrastare con il “divieto del patto di quota lite”) è, infatti, nello specifico ambito contrattuale che qui ci occupa, di portata minima se non del tutto irrilevante.

Il valore economico delle negoziazioni che il professionista è chiamato ad intraprendere in favore del proprio assistito (contratto di lavoro dell’atleta o contratto di trasferimento di un giocatore tra due società) è, quasi sempre, già pressoché interamente conosciuto dalle parti. È innegabile che società ed atleti abbiano in larga parte prefissato il risultato economico al ricorrere del quale intendono concludere un contratto (sia esso di lavoro o di trasferimento dell’atleta) già prima (o al momento stesso) del conferimento del mandato al procuratore chiamato ad assisterli.

In questi termini, essendo noto (perlomeno a grandi linee) il valore dell’affare in sede di conclusione del mandato, il mandatario potrà comunque – prefissandolo – parametrare il proprio compenso su detto valore senza per questo ricorrere allo strumento della percentuale su futuri accordi.

Il problema, semmai, può riguardare l’incremento di tale valore durante la vigenza dell’incarico (si pensi al caso di un calciatore che sottoscrive un mandato quando è tesserato per un club di serie C e, successivamente, viene richiesto da società di categorie superiori).

Anche in questo caso, la questione sembra potersi validamente superare prestabilendo un compenso fisso a seconda della “tipologia” di contratto che il procuratore dovrà negoziare (ad esempio prevedendo una remunerazione diversa per la stipula di un contratto di lavoro da parte del giocatore con un club di serie A, ovvero di serie B o, ancora, di serie C).

Le considerazioni che precedono sembrano doversi ritenere in piena armonia con la lettera del citato art. 25 del Codice deontologico forense, il cui primo comma afferma, oltretutto, che “è ammessa la pattuizione … a percentuale sul valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della prestazione, non soltanto a livello strettamente patrimoniale”.

 

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